Descrizione
Un lavoro in due parti. La prima di realtà cosiddetta aumentata, anzi storpiata e rivoltata, che diventa surreale, maltrattata con utensili bruti e cattivi, su temi di oggi tanto diffusi da diventare arnesi frusti da rigattiere. Si parla male di turismo low cost, previsioni del tempo, feste e sagre (della cipolla ripiena, del sedano rosso…), chilometri zero, commercialisti e appalti truccati, tav e animalisti, rievocazioni storiche a tutti i costi. Si ride, ma non c’è niente da ridere. Alla fine si va in montagna con storie per niente aumentate, anzi normali, e dettagli di posti fuorimano, storie di persone senza gloria, un paesaggio che commuove nella sua modesta bellezza, anziani che raccontano e giovani che mettono insieme hitech e tradizione per inventarsi una vita decente, anzi soddisfacente. E iniziative ardite come quella della nuova vita delle baite di Paraloup, in valle Stura, prima base partigiana di Nuto Revelli e compagni.
Renato Scagliola, Torino 1941, giornalista alla «Gazzetta del Popolo», «StampaSera» e «Stampa», ha pubblicato Osteria d’Oriente nel 1994, con le fotografie del figlio Davide, e La grappa alla vipera nel 2012. Cammina un po’ in montagna.
Rassegna stampa
Piero Bianucci
Scagliola e i paralipomeni
Tra le tante parole desuete sparse in queste pagine (per esempio, desueto è desueto) c’è “paralipomeni”. L’oscuro verbo (che qui non vuol dire verbo ma, dal latino, parola, e dunque trattasi di arcaismo), viene dal greco antico e, brutalmente tradotto, significa “cose omesse” o “tralasciate”. Donde l’uso, da Leopardi in poi, di intendere paralipomeni nel senso di cose aggiunte ad altra opera che le aveva omesse, non si sa bene se per superficialità, pigrizia, trascuratezza, ignoranza o semplicemente perché ritenute superflue. Nel suo sdrucciolare, paralipomeni ha un’affinità con ermeneutica, altro grecismo, che significa “arte, o tecnica, dell’interpretazione”. L’ermeneutica tout court oggi però indica la “filosofia dell’interpretazione”, discendente per li rami da Heidegger, Gadamer, Pareyson, giù giù fino a Vattimo. Bene, Renato Scagliola concepisce paralipomeni e applica l’ermeneutica all’immondizia, o spazzatura o più modernamente rifiuti (chissà chi, dopo aver fiutato, ha voglia di ri-fiutare). Osservato di sfuggita quale mirabile acrobazia eufemistica sia l’Amiat, sigla di Azienda Multiservizi Igiene Ambientale, dove i rifiuti manco compaiono, mentre nei cassonetti permangono e debordano, ciò che desidero far notare al paziente Lettore è come Scagliola sia maestro nel mescolare scrittura alta e scrittura bassa, colta e plebea, Accademia della Crusca e gergo dialettale, sintassi compresa. E come da tali accostamenti imprevedibili e spiazzanti germoglino umorismo, divertimento puro, ironia corrosiva, rabbia talvolta a pugni chiusi, ma sempre con il prevalere ultimo del sorriso sull’amarezza. Il libro si divide in due parti che corrispondono a due mondi. Il primo è il macrocosmo della stupidità, etereo e pervasivo. Il secondo è il microcosmo pietroso e segreto di remote valli piemontesi. Il macrocosmo della stupidità offre una casistica esilarante, piena di allusioni e strizzate d’occhio al lettore intelligente: l’avrebbe apprezzata Carlo Maria Cipolla, brillante storico dell’economia migrato in California all’Università di Berkeley, autore di un libello scritto per regalarlo agli amici a Natale e poi diventato best seller internazionale, “Allegro ma non troppo”, 1988, versione italiana dell’originale e più esplicito “The basic laws of human stupidity” (1976). Il microcosmo si compone di baite con i loro rari sopravvissuti, silenzi e praterie d’altura, cimiteri dimenticati dove trovarono sepoltura donne chiamate Del Mestre Redenta vedova Cussigh (un feuilleton in una riga di lapide), Rocci Concessina o Giuliana Eufrasilla. La malinconia traspare da parole virili che la rimuovono: “Le pietre dei muri squadrate appena, tremano quando soffia il foen di febbraio, ma senza paura, è solo un lieve tintinnare di quarziti, perché la casa è un eremita ormai, che ha visto di tutto e non si aspetta niente. Un sant’uomo, se si può dire così, che sembra tetro ma è solo vecchio con le nocche nodose, irsuto perché non ha più voglia di pettinarsi, taciturno perché ha già parlato da giovane, e non è servito granché. Se ne sta attaccato al suo ripido e non si muove neanche a morire, magari gli piace e ha nostalgia di quando il camino fumava e sul fuoco cuoceva la santa polenta di tutti i giorni.” Quasi una metamorfosi della baita in vecchio montanaro, e del vecchio montanaro in un autoritratto non firmato.