Descrizione
Perché si dice: badòla, ancutì, balengo, lajan, tabaleuri, monia quàcia, ecc? E che cosa significano espressioni come Ma vajlo a conté al Lucio ‘d la Venerìa oppure Fé babòja, fa nen ‘l pito, fé gòga e migòga, ma vate a caté ‘n cassul?
In lingua piemontese, i primi sono termini talvolta offensivi, i secondi sono modi di dire, entrambi appartengono al lessico popolare di un mondo che tende a sparire: ormai soltanto alcuni giovani ricordano di averli sentiti dai loro nonni.
Tuttavia, proprio nelle nuove generazioni, pare sia avvertito il bisogno di rinsaldare quel legame con ricordi, affetti, situazioni e luoghi che la globalizzazione frenetica sembra avere assopito.
Bruno Sartore offre questa nutrita e fantasiosa raccolta di epiteti e modi di dire, li spiega e li commenta. Il libro è un indispensabile strumento di consultazione per i più giovani e, forse, anche per i piemontesi doc che hanno trascurato certe frequentazioni linguistiche.
Come, in mancanza di una alfabetizzazione collettiva, il catechismo e i misteri religiosi nel lontano passato erano insegnati per immagini e affreschi murali, così la saggezza popolare era trasmessa oralmente di padre in figlio per mezzo di proverbi e modi di dire. Una ricchezza sociologica di enorme valore che oggi, purtroppo, ci sta sfuggendo lentamente tra le dita come sabbia, soltanto pochi appassionati si rendono conto del valore culturale di questa branca del sapere.
Nel secolo scorso molti genitori e nonni, anche a causa delle leggi restrittive sul linguaggio imposte dal regime, iniziarono a comunicare con figli e nipoti usando la lingua italiana, lingua che essi stessi si sforzavano di imparare. In tal modo, prima nei centri urbani e a mano a mano nelle zone rurali s’interruppe il fluire del sapere e del parlare atavico. In futuro, quasi una sorta di omaggio al moderno fenomeno che si chiama globalizzazione, la lingua sarà sempre più uniformata e probabilmente impoverita. Credo tuttavia che molte persone vorranno conoscere le lingue e gli idiomi del passato per ricostruire quelle sfumature di vita, di pensiero e di sensibilità che il cammino del genere umano nel suo lento procedere avrà probabilmente oscurato.
Ecco perché ho scritto questo libro.
Bruno Sartore è un profondo conoscitore della storia di Torino e dei Savoia. Con diverse associazioni di volontariato si adopera per la diffusione della cultura piemontese e tiene corsi per la terza età. Nel libro in lingua piemontese Torino al tempo del Pathefono ha raccolto e pubblicato i ricordi della madre sulla vita di una periferia torinese del secolo scorso. Nel volume La Corona di delizie ha curato i commenti ai delicati acquerelli di Maria Chiara Orlandini sulle residenze sabaude del Piemonte. È membro del Consiglio dei Seniores della Città di Torino presso Palazzo Civico ed è guida turistica per Torino e Provincia.
Renato Gendre –
Bruno Sartore, Balengo, Gariboja… La più completa raccolta di modi di dire in piemontese,
Torino, Giancarlo Zedde, 2019, pp. 80, € 12,00 [9788899778187].
Br. Sartore che, come dichiara nella breve Prefazione (p. 3) al suo lavoro, si è “principalmente
‘nutrito’ della realtà [non soltanto linguistica] Torinese appresa dai genitori
e soprattutto da (…) nonna Vica” (ibid.), ha affidato a un cassetto la raccolta, via
via accresciuta, di parole ed espressioni della sua “bella lingua” (sic), com’egli ama
definire il torinese. E, con tutta probabilità, lì sarebbero sempre state, sparse in fogli e
foglietti, se non fosse sopraggiunta la sollecitazione di “due lettori” (ibid.) che appresa
la spiegazione da lui data proprio di balengo, nella rubrica ‘Specchio dei tempi’ della
“Stampa”, lo invitarono a rendere pubblico il risultato completo della sua “ricerca
pluriennale” (ibid.). Questa la genesi del volume di cui ci occupiamo, il quale presenta,
dopo qualche indicazione necessaria per almeno “barcamenarsi nella lettura del
piemontese” (Come si legge il piemontese moderno, p. 4), due elenchi diversamente corposi
con relative spiegazioni, spesso arricchite da note: Epiteti piemontesi più o meno offensivi
(pp. 5-22) e Modi di dire (pp. 23-78). Prima dell’Indice (p. 80), l’Autore ci offre una sua
poesia a rima baciata (Ël dilin, ‘Il dito mignolo’, p. 79). Di fronte a lavori di questo
tipo, come anche a vocabolari e dizionari, non abbiamo mai sentito il bisogno, fatte
salve assenze clamorose, di sottolineare mancanze, intanto perché sono inevitabili
e poi perché qualche aggiunta non altererebbe il giudizio complessivo. Nel nostro
caso, p. es., che cosa cambierebbe se aggiungessimo tra gli epiteti Patelavache (‘persona
rozza nel comportamento o nel linguaggio’) o Angravia pogieul (‘ingravida balconi’,
detto di un dongiovanni da strapazzo) e tra i modi di dire A le na Merda monta scagn
(una merda, cioè una nullità, resta tale anche se sale su di uno sgabello, cioè in alto) o
Gaveje ’l ragnà (togliere le ragnatele, cioè fare l’amore con una zitella non più giovane)?
Niente. Sarebbe semplicemente una nota di colore in più nella illustrazione di ciò
che tutti sappiamo, che lo strumento metaforico ha una straordinaria diffusione nella
creazione lessicale dialettale.
BOLLETTINO
DELL’ATLANTE LINGUISTICO ITALIANO, III Serie – Dispensa N. 43
2019 Renato Gendre